I coniugi Mazzaserpicollocchi, quando il clima lo concede, siedono l'uno accanto all'altra in groppa ad una vecchia panchina di legno che adorna da sempre il loro giardino, dolcemente avvelenati dall'acquavite fatta in cucina da Ebe e zitti come solo chi si odia a morte da lustri riesce riesce a stare.
Pochi metri più avanti, oltre la veranda ove la stagionata coppia attende la notte, la latrina costruita da Anacleto adombra greve le rigogliose ortensie di Pasquala, la figlia dei due.
“Pasqualinaaa, esci a pisciare il cane!” Ordina stridula e puntuale Ebe a ogni calar del sole, ammorbidendo con un vezzeggiativo il compito urlato all'aria.
“Madre, porcodio, non abbiamo nessun dannato cane.” Suole rispondere rassegnata la non più giovanissima donna, implodendo la bestemmia tra i denti.
Quel dì, invece, la figlia maggiore si palesò alle spalle dei due, intenzionata a far conversazione; in paese le chiacchere sui lavori per la rete fognaria, e tutti i molteplici vantaggi della nuova invenzione, avevano insinuato tra i pensieri di Pasquala il germe della curiosità.
“Padre, avrai notato quei folti caschi di fiorellini. Non credi che” azzardò, prendendo alla lontana l'argomento, prima che il vecchio la interrompesse.
“Non dire una sola parola, degenerata. Ho eretto quella baracchetta con le mie mani. Le stesse mani che ti hanno cresciuto.”
“Non potrei esserne più lusingata, sebbene in cuor mio spero tu te le sia lavate di tanto in tanto” controbattè con scaltrezza.
“Taci. So cosa mormorano i paesani, ma noi continueremo tutti a cagare in quel buco, tu, Ebe, il cane, tutti quanti. Io stesso cagherò in quel buco finché l'ultima patata dell'insipido stufato che prepara tua madre scorrazzerà con calma lungo le mie budella. Sarà lì che finirà. Questo progresso, queste rivoluzioni, le macchine, non sono cose che fanno per me, non mi sono mai servite e non mi serviranno mai. Oh, e senza la nostra merda i tuoi fiori del cazzo non sarebbero così belli.”
“Padre” sospirò arrendevole, “non abbiamo mai avuto nessun fottutissimo cane.”
Centinaia di anni dopo, i coniugi Clelio Pietranera ed Edvige Vaccamorta, osservano sul monitor di un computer il sito web dell'INPS e hanno la tipica espressione di chi non si sta minimamente rendendo conto di cosa diavolo stia succedendo, la stessa che potrei avere io se impazzissi del tutto e decidessi di andare a visitare un'esposizione di arte contemporanea.
L'operatore di un patronato prova a spiegar loro che registrandosi sul sito possono accedere a buona parte della modulistica, richiedere documenti, rendere inutile il lavoro dell'operatore, controllare il cedolino della pensione ed evitare di rubare tempo alle loro attività preferite per trascinarsi zoppicando verso un lugubre ufficio, fare ore di coda e rompersi i coglioni vomitando sull'ultima pedina di un apparato burocratico totalmente ridiscutibile la loro frustrazione.
È palese, purtroppo, che le attività preferite da un essere umano italiota che ha superato una data soglia di età siano trascinarsi zoppicando verso posti a caso, fare ore di coda e rompersi i coglioni.
“Senta, giovanotto, lei è molto gentile ma io non riuscirò mai a usare un computer. Ce l'ho a casa, è fatto come questo qui, ha lo schermo, la tastiera e tutto il resto. Mia nuora lo usa, ma io non ce la posso proprio fare.”
C'è una costante in questa pretestuosa storiella piena di nomi stupidi, le solite quattro minchiate e alcune costrizioni linguistiche: ad un certo punto della nostra vita smetteremo di comprendere il progresso o di riconoscerlo tale.
Se è successo ad Anacleto, Clelio ed Edvige, accadrà anche a noi.
Mi chiedo, quando saremo vecchi, che cosa non riusciremo a capire e con quali parole un ovulo fecondato venuto al mondo con nostro concorso di colpa proverà a spiegarci saccentemente le meraviglie e le comodità di questa o quell'altra trovata tecnologica.
Quando mi capiterà, gli spaccherò il muso a quel piccolo figlio di puttana.
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